Attraverso questa raccolta di nove racconti brevi, Il premio Nobel Mo Yan non rinuncia a tornare sul terreno su cui è più a suo agio: l’asperrima transizione dalla caotica Cina repubblicana al regime ordinatore di Mao Zedong.
Ma questo è solo il sostrato comune a molte misere esistenze individuali di gente di campagna, di incomprensioni tra vecchie e nuove generazioni, di speranze che si spengono nella precaria vita di villaggio.
I molti personaggi che si susseguono hanno tutti un che di patetico e meschino che frustra fugaci aspirazioni “umanizzanti”.
Nessuno è dotato dei mezzi per elevarsi dalla sua condizione tranne, forse, tramite la pazzia o la malattia come è il caso, rispettivamente, dell’allevatore che dà il titolo al libro e del fugace amante-musicista di “Musica popolare”.
In alternativa c’è la fuga dal villaggio, che lascia però i problemi solamente in sospeso. La politica del figlio unico rientra col suo carico di dramma multigenerazionale attraverso “Esplosioni” e, parzialmente “Il neonato abbandonato”.
La lettura non è semplice: le rievocazioni, soprattutto quelle del passato e dell’infanzia – è il caso de “Il tornado” e “La colpa” – sono cariche di astrazioni e sensazioni.
Non c’è alcuna soluzione alle lacerazioni di questo mondo in cui avanza il socialismo reale, rappresentato dalla strada asfaltata e da rari ed evanescenti funzionari che pure, è chiaro, costituiscono il nuovo punto fermo.
“L’uomo che allevava i gatti” (1997) è il libro di Mo Yan meno adatto a chi della Cina conosce solo Shanghai.
Con la possibilità di muoversi, alcuni dei personaggi della raccolta possono tornare a vivere, per un istante lungo un battito di ciglia, in uno qualsiasi dei remoti e sconosciuti villaggi dell’entroterra.
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